Strada provinciale 33 è la storia d’una comunità così piccola e lontana da tutto da divenire un luogo onirico, magico, grottesco, oscuro; un testo che parla di un’Italia frammentata, spezzata, piena di luoghi dimenticati.
Tre attrici e una scena vuota, con un gioco di luci (quasi lucciole) a farla da padrone, ci raccontano una storia familiare di peccati, rimpianti, casa.
E se un giorno accadesse qualcosa di incredibilmente assurdo in un luogo incredibilmente piccolo?
Una nuova drammaturgia che sfiora alcuni colori della letteratura americana, in cui il paese è minuscolo in mezzo all’immensità delle foreste (la Tiffany Mcdaniel de L’Estate che sciolse ogni cosa, lo Stephen King de Le notti di Salem…) sfiorando con delicatezza e rispetto l’amaro tema del tempo de Le tre sorelle di Cechov; attingendo dal purgatorio Dantesco i rimandi pittorici, oscuri, delle cornici; il tutto per raccontare una realtà comune a tutto il mondo: il paese, in cui tutti si conoscono, pieno di segreti, di non detti, che cresce e si sviluppa come un’entità a sé stante, con i suoi cancri e i suoi legami quasi di sangue.
In un momento storico in cui il sentito dire è il filo rosso che lega le giornate tra di loro, in cui le notizie viaggiano attraverso telefoni senza fili che trasformano le informazioni e le rendono luoghi comuni senza fondamento, in cui ciascuno non sa più a chi o a cosa credere tanto da scegliere la propria fede con la stessa leggerezza con cui sceglie un film da guardare al cinema, ecco che andiamo a parlare del fatto che dal piccolo può nascere l’immenso. Il mondo, dopo
tutto ciò che è accaduto si contrae e spinge i suoi abitanti a ritornare nei luoghi dai quali sono fuggiti. Strada provinciale parla di radici, di tradizione, di un bisogno di ritrovare casa.
Una commedia nera, malinconica, che alterna un gioco di recitazione realistico a uno psicotico e grottesco galoppare delle scene di gruppo, in cui le attrici danno vita ai vari personaggi del paese, cavalcando un ritmo a volte forsennato, che poi viene spento e lenito nuovamente da momenti di sospensione in cui lo spettatore dovrebbe respirare, sentire, percepire questo “non sapere” che accomuna il nostro presente.
La fede non ha nulla a che fare con la religione ma con quello che scegliamo di proteggere, con ciò che ancora, al giorno d’oggi, riteniamo “sacro”, nel bene o nel male.

Giulia Bartolini