These violent delights have violent ends

In Romeo e Giulietta (la cui stesura va collocata nel 1592-94 e la prima rappresentazione nel 1595) c’è una sorta di ossessione del tempo; l’intera vicenda infatti si svolge in appena quattro giorni, da un lunedì di luglio al giovedì della stessa settimana, e a questa velocità non c’è spazio per alcuna correzione, non si inciampa, si cade, ci si rompe il collo e si perde la vita. Giulietta passa in quattro giorni da bambina a donna matura, Romeo da ragazzo imbevuto di amor cortese a vendicatore, Mercuzio da vitalistico funambolo del linguaggio a cadavere; per di più in una delle fonti del dramma, senz’altro quella più saccheggiata da Shakespeare The Tragicall Historye of Romeus and Juliet (1562) di Arthur Brooke, un poemetto di circa tremila versi, l’azione si svolge in diversi mesi. Cosa spinge quindi Shakespeare ad accelerare così vorticosamente il tempo dell’azione? “Non c’è tempo” o meglio “il tempo è scaduto” sembrano sussurrarsi di continuo tra loro i personaggi, o almeno tutti quelli che possiedono ancora gambe per correre, gli altri invece, i genitori, il Principe, la Chiesa, rimangono seduti in luoghi ben protetti ad osservare, immobili.

Un irriducibile antagonismo sociale avvicina Romeo e Giulietta più ad una tragedia borghese che ad una tragedia della vendetta o simili; caratteristica tipica della tragedia borghese è quella di porre in scena personaggi non aristocratici in scene di vita famigliare; i Capuleti e i Montecchi sono ricchi borghesi e nel testo c’è ampio spazio dedicato alle loro abitudini domestiche; Shakespeare pare denunciare soprattutto lo spirito mercantile e pragmatico del borghese, tutto teso a fare sfoggio della propria raggiunta posizione sociale, preoccupato solo del vantaggio economico della propria famiglia. Va inoltre considerato come nel testo l’ostilità che diviene conflitto e che alla fine si trasforma in morte copre uno spazio molto ampio rispetto a quello, in apparenza più manifesto ed evidente dell’amore. Sia Romeo che Giulietta, più Giulietta che Romeo, le differenze tra i due personaggi sono abissali tanto da far riflettere sul perché del loro amore, ma questo è un altro discorso, mettono ferocemente in discussione quel patto col mondo, quella specie di abitudine ereditaria, di convenzione prolungata che i loro padri, o sarebbe meglio dire che la generazione precedente ha stipulato e che non sembra aver proprio alcuna voglia di ritrattare. C’è un universo adulto che osserva impassibile il dimenarsi forsennato dei propri figli che inciampano di continuo e che ogni volta, con ginocchia sempre più sbucciate e il corpo sempre più livido, si rialzano e riprendono il passo; e così Romeo e Giulietta diviene luogo di morti violente, quasi accidentali.

Romeo e Giulietta è anche la tragedia di Mercuzio, essere ambiguo e pornografico, né maschio né femmina, che più di ogni altro sente l’innata inadeguatezza e allora folle, rincorre versi e costruisce mondi, finché pazzo di gelosia si lancia come Aiace su una lama ben affilata. Shakespeare elimina troppo presto Mercuzio, perché egli è un intruso, perché egli è un essere monologante, perché con lui tra i piedi non è possibile alcuna tragedia. Perché è lui ad essere la tragedia. Romeo muore e allora Giulietta non può continuare a vivere; muore Paride, muore Tebaldo e muore Mercuzio, l’unico tra i “figli” a sopravvivere è Benvolio, colui che mai entra nei conflitti, che mai è motore o vittima delle azioni e situazioni. Benvolio è colui che osserva, che si mette a distanza e poi narra. Benvolio è l’unico tra i giovani a sopravvivere perché utile all’universo adulto, perché attraverso i suoi racconti, i grandi, vengono informati dei fatti senza tuttavia correre il rischio di partecipare ai conflitti; Shakespeare lo situa opportunamente in una dimensione ibrida là dove le tragedie diventano innocue, in quella soglia in cui si hanno le orecchie sul palco e gli occhi in quinta. L’universo adulto ascolta Benvolio; l’universo adulto ascolta ma non vede le morti dei propri figli e alla fine, come in una sorta di metafora perfetta, decide di devitalizzare per sempre le giovani passioni ergendo mute statue che si lasciano osservare, su cui all’occorrenza si potrà piangere e che rimarranno immobili e smetteranno, una volta per tutte, di correre dietro alla Regina Mab costruttrice di sogni.

Andrea Baracco