DALL’ALTRA PARTE DEL BOSCO è un testo del 2011 di Neil LaBute, acclamato drammaturgo americano dell’era post-Mamet, uno degli autori che è riuscito maggiormente a rielaborare il crollo del sogno americano in chiave esistenzialista e post-liquida, in bilico tra Cechov e Bauman.
La maggior parte dei testi di LaBute analizzano “semplicemente” le relazioni umane. Ma quando il drammaturgo indaga i più profondi e bui meandri delle nostre esistenze, ha il talento di rivelarci per quello che siamo e che non vorremmo essere: abitanti di un altro mondo, interiore ed oscuro. In un’epoca in cui il teatro attinge sempre più a una dimensione politica, può essere interessante focalizzare la nostra attenzione sulla dimensione intima di un teatro dell’uomo, parabola esistenziale e filosofica di conflitti eterni.
Il testo racconta di Bobby e Betty, due fratelli che si incontrano in una “notte buia e tempestosa” apparentemente per un banale trasloco (lui ha una ditta di trasporti, lei è una professoressa universitaria), che poi si rivelerà essere una resa dei conti familiare, con toni tra il giallo e il thriller psicologico.
E non è un caso che il titolo originale, In a Forest Dark and Deep, richiami le tematiche di un testo del 1913 di Eleanor Gates, The Poor Little Rich Girl, diventato poi un film con Mary Pickford che narra l’iniziazione di Gwen, una ricca bambina trascurata dai genitori. Una notte, lasciata sola con la balia, la bambina viene drogata dalla donna, che la abbandona narcotizzata nel letto per poter uscire col fidanzato. Gwen, a quel punto, viene trasportata dai propri sogni in un mondo immaginario popolato da esseri fantastici, non lontano da quello dell’Alice di lewis Carroll, dove le viene offerto il sonno eterno. Nel mondo reale, intanto, il suo corpo sta lottando tra la vita e la morte, mentre i genitori, tornati a casa, si disperano al suo capezzale comprendendo finalmente le proprie mancanze.
Anche Betty, probabilmente, come la Gwen di Eleanor Gates, si è sentita poco amata dai genitori, e questo ora l’ha condotta dove la troviamo: immersa in un mare di scatole e di ricordi che deve lasciarsi alle spalle per sopravvivere al rimorso e salvarsi dalla galera.
Nel rapporto tra lei e suo fratello, inoltre, ritroviamo tutte le ossessioni e le contraddizioni della famiglia occidentale, con i suoi segreti a la Festen, le sue misere bugie, le sue attrazioni fatali e le sue regole di potere che finiranno col travolgere i due protagonisti.
Ma la famiglia, alla fine, ingoierà sé stessa nonostante tutto, risolvendo in un doloroso epilogo le angosce e le speranze negate dei due fratelli, vittime e carnefici incapaci di arrivare dall’altra parte del bosco.
Lo spettacolo segue lo stile del teatro da camera, citando l’Intima Teatern di August Strindberg e puntando i suoi atout sulla recitazione relazionale organica e sulla credibilità dei personaggi. Abbattere la divisione palco/platea sfruttando lo spazio in modo da coinvolgere lo spettatore nell’azione mi sembra dunque la soluzione più adatta a una pièce che racchiude in sé una forte carica empatica e veicola una claustrofobica intensità.
Trattandosi anche di un giallo, la musica sarà fondamentale per creare delle atmosfere da thriller elettro/psicologico, affidandosi a musicisti come Cliff Martinez o plastikman che, con le loro scariche, contribuiranno a mettere in circolo inquietudini, emozioni, stupori e dolori.
La scelta di due attori come Paolo Giovannucci e Chiara Tomarelli risponde all’esigenza di trovare due volti e due corpi sensibili, capaci di incarnare espressivamente la contraddizione tra maturità e infantilismo, amore e orrore, creando una profonda e vibrante relazione sulla scena. La traduzione del testo, curata insieme a Gianluca ficca, sarà ispirata alla necessità di accompagnare e sostenere organicamente la recitazione e, per questo, troverà la sua compiutezza solo nel corso delle prove.
Come nella tradizione postmoderna, sarà il pubblico a dover trovare le risposte alle azioni degli attori in scena e, una volta tornato a casa, a rivolgere lo sguardo su sé stesso. È questa l’amara catarsi di LaBute: offrirci un’occasione per guardare a ritroso le nostre vite, per rifare il doloroso conteggio di tutto quello che ci è stato dato e tolto, di tutto quello che noi abbiamo lasciato andare, e di tutto quello che gli altri ci hanno fatto credere. Un inventario crudele, di una vita forse solo apparentemente felice, che in realtà è stata una continua guerra piena di sconfitte e con pochissime vittorie sul campo. Almeno fin qui.
Marcello Cotugno